Partenza intelligente, perchè è il primo sabato di Agosto e ci sarà casino sulle strade, per non parlare del confine. Si va in Croazia, pur consapevoli che non ce la caveremo con mille lire (di questo passo Paolo Conte mi denuncerà).
Sveglia alle 5, colazione e via in macchina, con tutto il necessaire da mare.
Quellolì, siccome si va al mare, ha portato le pinne. Poi come si fa a non dargli del furlanotto appena venuto via dalla campagna? Fin troppo facile.
Io, ovviamente, ci patisco da matti che lui ha le pinne e io no, ma, piuttosto che dargli la soddisfazione, mi impicco.
Prima del confine sloveno Elisa dorme, alla sosta diesel le cola la bava.
Giungiamo senza difficoltà alcuna a Parenzo, la spiaggia è deserta, ci siamo noi, gli inservienti e i vecchi (pochi). Non c'è nemmeno il posteggiatore.
Sono pure chiusi i cessi. Io risolvo facendo il bagno, Elisa si contorce fino alle nove e venti, poi si arrende e, dovendo comunque andare a cambiare i soldi, lei e io andiamo a fare due passi in paese.
Anche perchè la spiaggia è bella, il mare stupendo, c'è la pineta, il minigolf il ping pong e ci siamo portati le carte e i libri; ma, dannazione, siamo arrivati alle sette e mezza, stiamo in spiaggia fino a cena. CHE PALLE! La pisciatina in paese è sopravvivenza!
A proposito di surving kit, come da manuale del perfetto turista in Croazia, spossate dai diciotto passi che abbiamo messo in fila, sostiamo a rifocillarci in un bar, che offre krapfen grandi come meloni con dentro il doppio della crema che sta in una torta nuziale. Parte l'analisi organolettica e troviamo il suddetto dolce piuttosto leggero, per niente unto, sfioccato, con lo zucchero asciutto, sapientemente cotto e farcito di una crema spumosa, ma non grassa, delicata e in cui non prevale l'uovo. Insomma, uno direbbe un krapfen perfetto.
No!
Eretici.
Il krapfen deve essere un cuneo nello stomaco, se mangi il krapfen al mare, non puoi fare il bagno per tre giorni, e a volte muori lo stesso. Il krapfen deve essere ragionevolmente unto: è una frittella, quindi non deve (ovviamente) grondare grasso, ma si deve sentire che 'ha fatto padella'. Dentro deve essere umido quanto basta affinchè quando viene morso rimanga l'impronta delle arcate dentali. I lembi del krapfen addentato non si separano, non è un Buondì: una pasta ben lievitata e ben cotta non osi separare ciò che gli incisivi uniscono. In bocca è soffocante, mascella e mandibola devono separarsi a stento, la sensazione non è quella di masticare una torta, ma di masticare plastilina.
Il vero krapfen va affrontato a bocconi piccoli, con rispetto; un krapfen che lascia in vita dopo un morso a piena bocca, non è un krapfen.
La crema, poi...uno il krapfen lo prende come vuole, per certi versi la sua morte è la marmellata (dolce, ma non grassa, pulisce e stordisce il palato al contempo), ma la vera perversione è la crema pasticcera.
E che crema sia, gialla come il risotto con lo zafferano, satura di tuorli, voglio morire di colesterolo, voglio una maionese dolce, al limite corretta con un goccio di marsala, o un'idea di scorza di limone (marsala, marsala!).
Se avessi voluto stare leggera avrei mangiato fette biscottate.
Già sono al mare, già devo stare dodici ore in spiaggia, già c'è un sole che spacca le pietre, già sono in compagnia di Quellolì.
Ho bisogno di un krapfen come dio comanda, un krapfen - Gott in Himmel - un krapfen o del prozac.
Ce ne torniamo accaldate in spiaggia passando davanti al rustico che comprerò quando sarò ricca, per trasformarlo in un bed&breakfast (che mi renderà ricca) grazie al quale potrò cucinare torte, biscotti e dolcetti per la colazione, e servire in salumi istriani accompagnati dal pane fatto nel forno a legna che metterò in giardino.
E quando arriverà Bruce Springsteen mi dirà “Ehy, you, bella culona, I see that you have a forno a legna, make a pizza for me”, ma io non avrò ancora imparato a farla e sprecherò l’unica occasione della mia vita.
La giornata in spiaggia in qualche modo trascorre: sto più in acqua che sull’asciugamano, con la scusa che non si può stare al sole nelle ore calde, dopo pranzo ingaggio una sfida all’ultimo sangue a ping pong con Quellolì, sostituendo un paio di volte la pallina con una pietra e mirando al centro dei suoi occhi.
Lui ha il buon gusto di perdere.
Finalmente arrivano le 19.30 e si può andare via dalla spiaggia, per la ben più agognata meta del ristorante.
Come accade ogni volta che poso il mio voluminoso deretano sulla sedia di un esercizio che somministra alimenti, lo spirito di Anton Ego si impossessa di me e mi dedico al mio sport preferito: la critica spietata delle pietanze, del locale, del servizio, delle scarpe della cameriera e, se ciò non mi soddisfa, pure degli avventori.
Sfortunatamente Quellolì non si strozza con il bolo, anzi, ha pure la faccia tosta di mangiare con gusto, davanti ad Elisa e me che ci logoriamo perché quello che è stato un minuto in bocca ci resterà un anno sui fianchi.
Ma siamo per il giorno da leone, lei e io, i cent’anni da pecora li vivano le secche!